The Equalizer – Il vendicatore, pellicola tratta dall’omonima serie televisiva popolarissima nell’America degli anni ‘80 (e non a caso citata in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, dichiarato maestro di Fuqua) e che fa seguito al roboante pastiche reaganiano tutto muscoli, patria e lealtà Attacco al potere – Olympus Has Fallen. Questa volta Fuqua si concentra però sul ritratto ben più intimista – ma non meno partiottico – di un eroe tutto d’un pezzo, che ha il volto e la fisicità di Denzel Washington, attore che proprio il regista afroamericano aveva contribuito a liberare da ruoli impegnati (Hurricane, Malcom X) o da belloccio (il melenso Mississippi Masala) con Training Day (ad oggi forse il suo film più riuscito), che fruttò all’interprete il suo secondo Oscar, dopo quello per Glory. Questa volta Washington è Robert McCall, commesso in un megastore del fai da te e solitario frequentatore notturno di un diner di periferia. È proprio in questo classico locus amoenus americano che il nostro si imbatte in un’altra cliente abituale: la prostituta minorenne Teri (una Chloë Grace Moretz dall’andatura caracollante), aspirante cantante finita però nelle mani di un pappone legato alla mafia russa. Quando la ragazza viene malmenata dal suo truce protettore, McCall libera la sua sopita professionalità omicida (frutto di esperienze lavorative pregresse), raddrizza una serie di torti e risale la piramide mafiosa, mietendo con la sua falce mortifera una serie di malfattori post sovietici spietati e, come vuole la vulgata, butterati. In realtà però la fanciulla in pericolo esce qui troppo presto di scena e il nostro eroe finisce per spostare la sua attenzione filantropica su un collega obeso altrettanto bisognoso del suo aiuto e che si offrirà quale valida spalla per la gustosa mattanza finale che vale la visione dell’intero film.
Il ritmo complessivo di The Equalizer – Il vendicatore è infatti complessivamente intermittente e rarefatto, in parte perché vuole dimostrare una certa filiazione dal cinema hongkonghese (l’eroe dall’attitudine zen, i dettagli a tutto schermo, i rallenty epici) che di certo Fuqua ama molto (non a caso, protagonista del suo esordio, Costretti ad uccidere, era Chow Yun-Fat), ma in parte anche perché nel regista di Brooklyn’s Finest l’afflato epico si accompagna sempre ad una certa predisposizione per le reiterazioni e le lungaggini, narrative ed estetiche. Impera, in The Equalizer, un sostanziale innamoramento per la bella inquadratura, per il barocchismo e per un certo decadentismo, ben espresso dalla cupa – al limite della visibilità – fotografia di Mauro Fiore (premio Oscar per Avatar). Ma c’è soprattutto nel film un rapimento totale di Fuqua per la propria musa, un Denzel Washington dalla fisicità massiccia ma all’occorrenza anche snodabile, e con in più quella mascella mobile che lo spinge, specie negli ultimi anni, ad un curioso ruminare: un tratto mimico che lo contraddistingue, limitandone lo status adonico (l’età d’altronde avanza anche per lui) e facendolo oscillare continuamente tra l’inquietante e il rassicurante, dal momento che non ci si riesce a spiegare cosa mai stia rimuginando.
Quella di McCall è una tecnica di liquidazione dell’avversario davvero raffinata ed esatta al millimetro, non è difficile indovinarne la provenienza “militare”, la sua etica poi è molto a stelle e strisce e apparentabile a quella dell’eroe reaganiano, dato che il nostro non dimentica mai di offrire un’alternativa ad una morte certa e non sempre rapida. D’altronde i cattivi qui sono di nuovo dei russi, proprio come nell’action della tarda Guerra Fredda, ma a differenza di allora lo scontro tra i due vecchi nemici non ha più il sapore di una contrasto ideologico: entrambi i “blocchi” parteggiano per il Dio potere. Non si tratta però di una questione capitalista legata al denaro – non almeno nel film di Fuqua – bensì del potere di decidere della vita delle persone. Del potere di uccidere o resuscitare, distruggere e riedificare. Non a caso, quando la collega cassiera viena derubata oltre che dell’incasso, anche di un prezioso anello di famiglia, il ladruncolo fa una brutta fine (nel fuori campo e ben esemplificata metonimicamente da un martello poi riposto sullo scaffale), ma McCall riporta indietro solo l’anello commentando che il resto “erano solo dei soldi”.
Denzel Washington assicura al ruolo il suo talento d'attore e la sua gravitas, evidente soprattutto nella profondità dello sguardo che diventa il centro visivo ed emozionale della storia, nonché il porto d'accesso per molti dei virtuosismi registici cui Fuqua, abilissimo dietro la cinepresa, si abbandona con gioioso entusiasmo.